giovedì 28 maggio 2009

Dalla valle del Mela alla stazione Termini di Roma: l'inferno delle due sorelle barbone che rischiano la vita ogni giorno


Pochi stracci e sacchi pieni di giornali vecchi, qualche cartone. Per chi non ha più una casa nel mondo, quando cala la notte bisogna scovare un angolo in rincantucciarsi attendendo il nuovo giorno. Che, forse, arriverà. E con esso il quotidiano dramma della miseria, della paura. Degli sguardi carichi di disprezzo e insofferenza. La vita dei clochard, rifugiati nei luoghi di nessuno come le stazioni, è una lotta per sopravvivere. Per non soccombere nella guerra tra chi è più disperato. Bisogna guardarsi dai ladri. Mentre chi potrebbe (dovrebbe) proteggerti ti chiede di nasconderti. Perché sei indecente. Perché puzzi. Perché occupi il marciapiede sul quale passa ogni giorno la gente “normale” che una casa ce l’ha, e anche una famiglia, qualcuno che la attende per la cena, qualcuno a cui telefonare, qualcuno da abbracciare, un bagno caldo e lenzuola pulite. E tu sei una ferita aperta da cui distogliere lo sguardo. Un monito, forse un rimprovero. Meglio non guardare. E non pensarci. Passano gli anni, se sei fortunato e non sei rimasto ancora ucciso o ferito a morte. Ti hanno derubato. Dei pochi soldi che avevi. Dell’identità. E non solo perché ti hanno portato via i documenti. Ma perché nessuno conosce più il tuo nome, in una società in cui conti per il tuo ruolo. Impiegato. Dottore. Figlio. Padre. Ah, dimenticavo. Conti anche per il potere statale che non si dimentica di te quando ti chiede di adempiere i tuoi doveri di cittadino. Quando scade l’ultima bolletta, con indirizzo e nome in grassetto ben in evidenza sulla busta? Invece, nessuno pronuncia più il tuo nome. E hai smarrito la tua storia, che talvolta emerge attraverso la rete confusa dei ricordi. E parla del sud, parla di mare, parla di una vita che prima, quando un nome ce l’avevi, eri felice, anche se non eri ricco.
Nell’inferno dei barboni che occupano gli angoli bui delle metropoli, Francesca e Concetta hanno una sola risorsa, l’essere in due. Che, quando si vive nel sottobosco urbano in cui tutti sono contro tutti, non è poco. Soprattutto non è poco per loro, sorelle di 70 e 67 anni, custode ciascuna della vita dell’altra. Morirebbero se le separassero. È stata una giornalista di “Repubblica”, Gaia Giuliani, a raccontare per prima la loro storia. Siamo a Roma, alla stazione Termini. È dicembre e la Giuliani scrive delle due sorelle minacciate da un vigile urbano in congedo che lavora per il Comune (“Se non ve ne andate torno qui e do fuoco a tutto”), che dignitosamente raccolgono i rifiuti dentro un sacco e tolgono il disturbo. Non prima, però, di aver passato uno straccio imbevuto d’acqua sul marciapiede che considerano la loro casa. E poi verso l’ignoto, verso la paura. Potrebbero dormire nell’ostello della Caritas, poco distante, ma si rifiutano: alla Caritas spiegano che è normale, se sei un mendicante gli altri lo sanno, e nottetempo ti rubano i soldi che hai raccolto. Francesca e Concetta non chiedono l’elemosina, la accettano, e non sempre, solo se viene loro offerta. Lo stesso avviene per il cibo. Sono insofferenti alle regole, per una sorta di orgoglio insito nella loro natura forte e incapace di piegarsi ai colpi che la vita ha riservato loro, una dignità che le rende libere e perciò ingovernabili. Sono delle indesiderate, costantemente a rischio, non di rado attaccate da bande di altri disperati. Tra loro altri diseredati, invisibili, immigrati che si organizzano per imporre il “pizzo” anche per dei cartoni da stendere per terra. Si ribellano, sono minacciate e pestate a sangue.

La giornalista di “Repubblica” che scopre la loro tragedia quotidiana racconta la storia di due donne partite dalla Sicilia trent’anni fa, dopo aver perso tutto, su un treno che le avrebbe condotte a Roma e alla vita da senzatetto che conducono da allora. Sono due invisibili, senza documenti e senza identità. Ma il caso vuole che quell’articolo capiti tra le mani del nostro compaesano Mimmo Cirino, al quale non sfuggono i particolari della vicenda. Tra le tante storie raccolte, ascoltate, vissute e talvolta raccontate, con la sensibilità di chi ama la letteratura, il teatro, la gente, la vita, Mimmo Cirino inizia a ricordare. Scava tra i suoi ricordi di capostazione in pensione. Pensa alle due sorelle di cui parla l’articolo, ai fatti accennati, alle date riportate. Confronta i suoi ricordi con quelli di due colleghi e a poco a poco il quadro si fa chiaro. Ricostruisce le vicende, ma sarebbe meglio dire le sventure, della famiglia di Francesca e Concetta, che insieme al vecchio padre incontrava spesso alla fontanella della stazione di Archi, la piccola frazione situata tra i comuni di San Filippo del Mela e Milazzo. Sono proprio loro le barbone della stazione Termini di Roma, Francesca e Concetta Andaloro. Una volta scoperto il cognome, è stato facile per Cirino ricostruirne le peregrinazioni.

Una famiglia di braccianti, lavoratori che con sacrificio costruiscono un piccolo mondo in cui vivere dignitosamente , come se ne incontrano tante guardando al passato della nostra terra. Il padre Giuseppe, nato a Milazzo il 1° ottobre 1907, coltivava da colono le terre del barone Sergio Marullo di Condojanni e, con la moglie Crocifissa Pino, nata a Milazzo il 15 febbraio 1911, si era stabilito in una casetta in riva al mare, alla Marina di Archi, che era allora una lunga distesa di sabbia finissima a due passi dalla foce del Floripotema, oltre la quale iniziavano i filari di uva zibibbo e i fitti agrumeti della valle. Una vita serena, quella di Francesca e Concetta, con i genitori e il fratello Salvatore, nato a San Filippo del Mela il 26 marzo 1949, fin quando l’industrializzazione, con l’impianto della Raffineria e dell’Enel, non li costringe ad uno sfratto forzato, prima a Torregrotta e poi a Pace del Mela. Profughi dell’industrializzazione. Nel frattempo, una serie di eventi sfortunati mina la stabilità del nucleo familiare: prima la morte della madre Crocifissa e poi quella di Salvatore, che muore annegato a soli 26 anni. Infine la morte del padre, travolto da un’auto sulla statale 113 tre anni dopo, nel 1978, priva Francesca e Concetta dell’ultimo affetto rimasto. Si salvano per miracolo dall’alluvione che nello stesso anno causa lo straripamento del torrente Muto, ma restano senza casa. Disperate e senza più nulla, una notte salgono su un treno verso Messina, si fermano alla stazione ma, raccontano, un poliziotto aggredisce a calci Francesca, che finisce all’ospedale con una coscia gravemente ferita. Da allora zoppica ancora. Le avvistano per qualche tempo nella zona della stazione e del porto, infine fuggono anche da lì. Risultano irreperibili al censimento del 1981. Hanno già iniziato l’inferno della vita da clochard a Roma.

La loro storia è stata ripresa dalla stampa locale. Il giornalista Mario Di Paola sulla "Gazzetta del Sud" ha raccolto l’appello lanciato da Roma: i paesi d’origine “riadottino” le sorelle Andaloro. L’appello è rivolto ai sindaci del distretto socio-sanitario, perché trovino un alloggio che accolga queste due nostre compaesane prive dei mezzi più elementari per affrontare ciò che resta loro della vecchiaia. È stata la cooperativa “Obiettivo Salute e Lavoro” di Milazzo a dare per prima la disponibilità ad ospitarle e assisterle. Le generalità di Francesca e Concetta sono state fornite da Mimmo Cirino alle istituzioni romane che possano ricondurle tra i cittadini italiani in qualche modo “visibili”: la Caritas, il comune, la Comunità di Sant’Egidio. Nella capitale, la giornalista Gaia Giuliani ha trovato la disponibilità della “Casa dei diritti sociali” per la fornitura della carta d’identità e per l’avvio della pratica di pensione. Resta da trovare un luogo dove finalmente le due sorelle possano smettere i panni di “barbone”. Nell’attesa che qualcosa si muova, rischiano di morire ogni giorno.

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